lunedì 2 agosto 2021

#NarrazioniOlimpiche Tokyo 2020, #Storie: Gianmarco Tamberi

«Sono stati anni difficilissimi. E finalmente posso dire che ne è valsa la pena». La vittoria dell’oro di Gianmarco Tamberi nel salto in alto non è soltanto la storia del primo oro olimpico dell’atletica azzurra dal 2008, il primo vinto nello stadio da Los Angeles 1984 con pochi minuti di vantaggio su Marcell Jacobs. È la storia di un’ossessione, di una rivincita inseguita per cinque anni e raggiunta quando meno sembrava possibile. Soprattutto, è la storia di un atleta che nell’atto decisivo ha rinunciato a molte delle cose che lo avevano reso celebre.
«A dire la verità a me il salto in alto non piace». Così diceva Tamberi, nell’aprile 2016, in un’intervista a Sportweek pochi mesi prima dell’inizio delle Olimpiadi di Rio e poche settimane dopo la vittoria di un titolo mondiale indoor, quando era iniziata la sua scalata verso la celebrità. «Detta così è un po’ forte, lo so, ma lo faccio perché sono bravo, non perché lo amo. Non mi ha mai appassionato come per esempio il basket». All’epoca di quell’intervista, Tamberi era un saltatore di nemmeno 24 anni che si dedicava a tempo pieno all’atletica solo da sette.
Per Gianmarco Tamberi la possibilità di vincere un oro olimpico non era solo un sogno. Era l’unico traguardo possibile per dare un senso alla scelta di sacrificare la sua passione per l’atletica. O, almeno, ai tempi lui diceva così. Sarebbe stato il frutto di un sodalizio fortissimo, quello con il padre Marco, suo allenatore e finalista dell’alto a Mosca 1980. Era stato il padre a convincerlo – senza tuttavia costringerlo – a mollare il basket per inseguire un sogno che, per molti versi, aveva più l’aspetto dell’obbligo. Ed era stato il padre, quando Gianmarco nel 2013 sembrava un talento alla deriva ed era pure tornato a giocare a basket in serie D, a metterlo davanti a un bivio: o stai alle mie regole, o te ne vai. Il figlio se ne andò di casa (trasferendosi da sua madre), ci pensò un mese e tornò con l’unico tecnico che potesse allenarlo, quello che aveva investito tutto su una rincorsa velocissima in grado di spararlo ad altezze siderali. Stette alle regole (sveglia alle nove, luce spenta alle undici e mezza, va detto che c’è di peggio) e da lì iniziò il crescendo, fino all’oro indoor ai Mondiali di Portland 2016. Il Brasile doveva essere l’apoteosi: «Questa è l’Olimpiade mia. Non esiste altro, non può andare male. Voglio vincere».
Fino all’Herculis, uno dei meeting più importanti del mondo, a Montecarlo. Il 15 luglio 2016, in un tempio dell’atletica leggera, si poteva entrare gratis: bastava presentarsi con la mezza barba di Tamberi. Furono un trionfo e una tragedia sportiva. Tamberi dominò quella gara, ridicolizzando gli avversari che, incidentalmente, erano i migliori saltatori del mondo. Superò i 2,37 metri alla prima misura, quando il qatariota Mutaz Essa Barshim era già fuori. Alla terza valicò pure i 2,39, segnando il nuovo record italiano e vincendo la gara. A quel punto aveva due scelte: accontentarsi di un dominio assoluto o chiedere di portare l’asticella a 2,41, per provare a superare anche la miglior prestazione mondiale dell’anno, segnata proprio da Barshim. Tamberi decise di giocarsela. Sbagliò il primo tentativo. Riprovò e si accasciò sul materasso tenendosi la caviglia e urlando. Lesione del legamento deltoideo, una sentenza tombale sui sogni olimpici.  Quest’anno, già prima dei Giochi, stava facendo la sua stagione migliore post infortunio. Agli Europei indoor di Torun ha lottato a livelli altissimi. È arrivato a giocarsi l’oro a 2,37, dopo aver saltato 2,33 e 2,35 alla seconda misura. Un’altezza siderale, per il Tamberi post 2016. Ma ha dovuto cedere a Maksim Nedasekau, che si è inventato un miracolo a 2,37 dopo due errori a 2,35. 
La stagione outdoor proseguiva fra alti e bassi, ma mai sopra i 2,33 metri. E sempre a guardare quel gruppetto di quattro o cinque atleti che avevano una marcia in più. Intanto, facevano rumore anche i cambi di società: prima l’addio alle Fiamme Gialle, nel 2020, per tornare civile con Atl-Etica, poi nemmeno un anno dopo il ritorno ai gruppi militari, stavolta con le Fiamme Oro.
Tamberi a Tokyo non era tagliato fuori ma gli serviva una gara perfetta e un po’ di fortuna per andare a medaglia. Per arrivare all’oro, gliene sarebbe servita molta. Il giorno delle qualificazioni aveva sporcato la sua ‘fedina’ con un errore a 2,28. Il salto in alto concede tre prove a ogni misura, ma evitare gli errori inutili è fondamentale, perché in caso di pareggio vince chi ha fatto meno errori nell’ultima misura saltata. E in caso di ulteriore pareggio, chi ha fatto meno errori in assoluto in finale. Tamberi era alla terza Olimpiade. La prima volta, a Londra, era un ragazzino e più in là delle eliminatorie non poteva andare. La seconda volta, a Rio, vide la pedana appoggiato alle stampelle. L’1 agosto 2021, per un atleta di 29 anni, aveva tutta l’aria di essere l’ultima chiamata.  
Al terzo errore lui e Barshim erano pari. È rarissimo che succeda e il regolamento prevede due possibilità: o lo spareggio, o l’ex aequo, se entrambi gli atleti lo accettano. «Se lo spareggio non viene effettuato – dice il regolamento -, incluso il caso in cui gli atleti, in ogni fase, decidano di non saltare ulteriormente, la parità per il primo posto sarà confermata». In quel momento, in parità, c’erano due atleti con infortuni gravissimi alle spalle. Né Barshim né Tamberi avevano mai vinto un oro olimpico. Sono amici di vecchia data e si sono dati manforte negli anni. 
Che Tamberi avrebbe accettato un pareggio, non c’erano dubbi. L’unica incognita era se Barshim, il più forte saltatore degli ultimi vent’anni, avrebbe accettato di dividere il gradino più alto del podio con qualcuno. Il resto è storia. «Can we have two golds?», chiede Barshim al giudice. «It’s possible». Tamberi e Barshim si abbracciano. «Per me è qualcosa di incredibile. Lui (Barshim, ndr) è il saltatore più forte di tutti i tempi, è inutile dirlo – ha detto alla Rai -. Ha dimostrato in questi anni di essere veramente il numero uno in assoluto. Per me vincere un’Olimpiade dopo quello che ho passato è una cosa stratosferica. Lui se lo meritava. Io sinceramente credo di aver realizzato un sogno, un pezzo di storia che rimarrà per sempre con me. Non vedo l’ora di raccontarlo ai miei figli quando li avrò, se li avrò. Non dormirò mai più». Riccardo Rimondi www.ultimouomo.com

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